Caro Alessandro,
Oggi è il tuo cinquantesimo compleanno, una ricorrenza che ormai da tempo segna il raggiungimento della fase più feconda della vita, la piena maturità.

Alessandro Maffezzoni
Questa giornata, dal forte significato simbolico, mi sembra il momento più adatto per condividere con Te alcune riflessioni , che ho avuto modo di sviluppare lo scorso inverno, tra gennaio e febbraio, quando ero impegnato a scrivere il mio ultimo romanzo breve, ambientato nella regione forse più interessante, tra quelle da me visitate nel corso dei “lunghi viaggi” degli anni post-pensione, ovvero l’exclave russa di Kaliningrad, tra Polonia e Lituania, laddove la “sindrome dell’accerchiamento” (da sempre un elemento distintivo della psicologia collettiva del popolo russo) diventa una realtà palpabile e ben percepibile anche dal viaggiatore, purché non sia interessato soltanto alle vestigia della Konigsberg prussiana o ai paesaggi mozzafiato della “Kurskaya Kosà”, ma riesca a stabilire (cosa peraltro non facilissima) un contatto reale con la popolazione locale.
La storia da me narrata - e che è adesso “in attesa di un editore” - si sviluppa su un doppio registro, geopolitico e psicologico.
Il primo è rappresentato dall’atmosfera particolarissima che si respirava in quella terra, negli anni (2014/2019) in cui ho potuto frequentarla con una certa assiduità, e che ho cercato di “fotografare” nella sua quotidianità.
L’aspetto psicologico è sicuramente quello di gran lunga prevalente e non è certo privo di elementi autobiografici, in particolare in alcuni tratti del carattere e della personalità del protagonista maschile, Giovanni.
La trama del racconto segue invece un copione del tutto diverso rispetto alle mie (alle nostre) vicende umane.
Forse l’unico punto in comune sta nell’inizio della storia, ovvero nella relazione con una donna già sposata e con un figlio.
Dopo di che le due vicende corrono su binari ben distinti e in direzioni opposte.
Vera sceglie di rimanere con il marito e a Giovanni viene negato il diritto alla paternità nei confronti di Natalja, nata da quella breve relazione.
Carla (Tua madre) sceglie invece di separarsi dal marito e di avviare un percorso di vita comune con me, da cui, due anni dopo, sarebbe nato Tuo fratello Cristoforo.
È in questo contesto che nasce il rapporto tra me e Te, su cui, nei mesi scorsi, ho riflettuto a lungo, ripercorrendone le varie fasi.
Dei nostri primi incontri, Alessandro, mi è rimasto giusto qualche fotogramma, e per di più alquanto sfocato.
In compenso, ho conservato un ricordo molto nitido dei giorni che hanno preceduto e seguito la separazione di Tua madre.
Dal marito e dai suoceri - e perfino dai suoi stessi genitori - le era stata posta un’alternativa drastica. “Scegli tra Tuo figlio e quell’altro”.
Ovviamente lei non avrebbe mai voluto (né potuto) rinunciare al “suo Ale”.
Viveva però come una profonda ingiustizia, una vera violenza, l’ultimatum che le era stato imposto. Trovò dentro di sé la forza di dire no e di lasciare, in una sera d’autunno, la casa di Via Belvedere.
Quella notte è stata (ne sono convinto) la più drammatica nella vita di Tua madre, che pure ha conosciuto altri momenti, non meno drammatici. A tormentarla la Tua immagine (all’epoca un bambinello di quattro anni, compiuti da poco) trattenuto dal padre sull’uscio di casa, mentre chiamavi, con voce disperata, la Mamma.
Seguirono giornate convulse di incontri e trattative tra gli avvocati, di cui Tu eri la principale posta in gioco.
A giocare contro Carla, in quel “tira e molla” tra avvocati, c’era anche l’aspetto logistico, ovvero lo stato dell’appartamento in cui all’epoca vivevo io e che è stato il nostro primo “rifugio”, al secondo piano di un edificio, all’epoca fatiscente, tra il Vicolo Concavo e Via San Faustino. L’appartamento era costituito da due vani separati dalle scale che portavano ai piani superiori: sul lato del “Vicolo” il bagno e una cucina vecchio stile; la camera da letto invece sul lato verso Via San Faustino.
Una soluzione “stile bohemien” che si confaceva perfettamente alla mia vita di prima ma che risultava del tutto inadatta ad ospitare una donna separata, con un bambino di appena quattro anni.
In quella situazione, l’Avvocato Moretti riuscì a strappare, a fatica, un accordo che, pur in un quadro nettamente sbilanciato a favore del padre, riconosciuto quale “unico affidatario del minore”, garantiva comunque a Carla la possibilità di tenerti con sé i pomeriggi dei giorni feriali. In fondo era ciò che a lei premeva.
“Non mi interessa avere l’affidamento, se lo tenga pure lui; voglio soltanto avere la possibilità di seguire il mio bambino tutti i giorni”, aveva detto all’Avvocato.
Per circa un anno, ogni pomeriggio, dal lunedì al venerdì, Carla, appena uscita dal lavoro, veniva a prenderti all’asilo e ti portava da noi, fino all’arrivo di Tuo padre.
Chissà se Ti è rimasto qualche ricordo delle ore trascorse con la Mamma (e con me) al Vicolo Concavo! Forse no o forse si, visto che avevi quattro/cinque anni.
In ogni caso, mi è sembrato giusto ricordare quel primo, burrascoso, periodo, perché proprio da lì, dal Vicolo Concavo, è partito il nostro percorso comune.
Nell’ottobre del ‘79 ci trasferimmo in un quadrilocale, al settimo piano di uno dei “casermoni” del “CentroSud” di Via della Volta, che avevo appena acquistato grazie al sostegno finanziario di mia nonna.
L’appartamento non era niente di che ma si trovava a due passi da Via Belvedere e disponeva di una cameretta in più, “per quando Ale si fermerà a dormire da noi” (era stato il primo commento di Carla, nel vederlo).
I sette anni di vita in quell’anonimo appartamento hanno rappresentato una fase importante del nostro comune percorso.
Li definirei (con linguaggio da geologo, che ben si attaglia alla situazione di allora) gli “anni dell’assestamento dopo il terremoto del ‘78”.
Esattamente un anno dopo nacque Cristoforo e, quasi in contemporanea con la nascita di Tuo fratello, cominciarono a normalizzarsi i rapporti con Giuliano, con tuo padre.
Non credo sia stata una coincidenza. Sono convinto che quell’evento abbia contribuito a spazzar via le paure di Giuliano che io potessi insidiare, in qualche modo, il suo ruolo di padre.
Sempre in quegli anni - “gli anni del CentroSud”-– si è andato gradualmente profilando anche il rapporto tra noi due.
Ho sempre avuto ben chiaro che non avrei mai dovuto pormi, nei Tuoi confronti, come un “secondo padre” né tanto meno come una figura alternativa alla figura paterna. Per questo mi sono sempre tenuto alla larga dalle decisioni che i Tuoi genitori hanno assunto circa il Tuo futuro, a partire dalla scelta della scuola in cui iscriverti. E tuttavia mi sarebbe piaciuto diventare una figura significativa, seppur ben distinta dai genitori, del Tuo contesto familiare.
Purtroppo, non ho mai avuto le “capacità relazionali” che invece Tua madre possiede, in modo del tutto naturale.
Mi ci sono voluti anni prima di riuscire ad instaurare un vero rapporto con Te. Una prima promettente svolta si è verificata tra il settembre 1985 e il giugno 1986, gli ultimi dieci mesi da noi trascorsi nell’appartamento di Via della Volta.
Si è trattato di un periodo importante per entrambi. Io mi stavo preparando al concorso per dirigente del Ministero del Lavoro mentre per Te era il primo anno alle Medie, che ha rappresentato - anche nel Tuo caso - un vero e proprio salto nell’approccio allo studio.
In quel frangente hai trovato in me un supporto inatteso nell’affrontare lo studio di materie, quali la Geografia e la Storia. Ricordo, in particolare, un pomeriggio di fine febbraio del 1986. Dovevi fare, per la scuola, una ricerca sul significato del mito di Giasone, gli Argonauti e il vello d’oro e così ti parlai a lungo dei rapporti tra gli antichi Greci e le popolazioni che abitavano le estreme propaggini orientali del Mar Nero, nella Colchide (l’attuale Georgia Occidentale) e nei territori limitrofi.
Da allora hai cominciato a guardarmi con occhi diversi, non più soltanto come “il compagno della Mamma” o il “papà di Cristoforo”, ma come una persona capace di soddisfare la tua crescente “sete di conoscenza” su culture e popoli lontani.
L’ultimo venerdì di giugno di quello stesso anno - appena dopo la Tua promozione in Seconda Media - traslocammo in Via Cimabue, nella casa che, in questi quasi quarant’anni, ha visto alternarsi lunghi periodi di successi professionali a cadute rovinose, di quelle da cui non è affatto scontato riuscire a rialzarsi.
Se dovessi un giorno scrivere una piccola “storia familiare”, mi piacerebbe definire i primi otto anni, trascorsi in Via Cimabue, come “l’epoca d’oro della nostra famiglia”, e non per gli aspetti di affermazione sociale, né tanto meno per i miei successi professionali (il concorso a dirigente ministeriale superato brillantemente, la nomina a direttore dell’Ufficio del Lavoro, prima a Como e successivamente, dal dicembre 1987, a Brescia).
A connotare positivamente quel periodo sono soprattutto le dinamiche interne al nostro nucleo familiare, inteso in senso ampio (di famiglia allargata o “step family”, per usare il termine coniato Oltre Oceano, diversi decenni fa). Mi riferisco alla capacità che hanno dimostrato i Tuoi genitori (e con loro anche io) di seppellire definitivamente vecchi rancori e dissapori per costruire un’autentica solidarietà familiare centrata sull’interesse e sul futuro dei figli.
Ci tengo a sottolinearlo perché non sempre, tra “ex”, le cose vanno così.
Non sono rari, purtroppo, i casi in cui i figli vengono utilizzati come “arma impropria” contro l’ex coniuge. Per non parlare dei tentativi di sminuire, agli occhi del figlio, l’altro genitore o addirittura di sostituirlo, surrettiziamente, con il proprio compagno, o compagna.
L’epoca d’oro della nostra vita familiare (come l’ho scherzosamente definita) si è chiusa nel peggiore dei modi, all’alba del 20 gennaio 1995, con l’arresto di Carla e di un altro impiegato e contestualmente con la mia incriminazione, in quanto responsabile dell’ufficio. Già sei mesi prima erano state effettuate, su ordine della Procura, delle perquisizioni in Ufficio e nelle residenze degli indagati, per cui sapevamo che era in corso un’indagine avente per oggetto il rilascio di alcune autorizzazioni al lavoro in favore di cittadini marocchini. Eravamo però convinti di poter dimostrare che quelle autorizzazioni erano state rilasciate nel pieno rispetto delle disposizioni ministeriali. Per cui la svolta improvvisa impressa alle indagini, con gli arresti, rappresentò un vero e proprio fulmine a ciel sereno.
Non ho certo bisogno di ricordare, proprio a Te, la drammaticità di quei momenti.
Del resto, Tu sei stato il solo, tra noi, a visitare Carla in Carcere, opportunità che è stata preclusa sia a me, in quanto coindagato, sia a Cristoforo, in ragione dell’età, essendo, all’epoca, appena quattordicenne.
Non riesco ad immaginare che cosa Tu possa aver provato nell’incontrare Tua madre nel “parlatorio” del Carcere di Verziano.
Tuttavia, ripensando a quei giorni, continuo a sorprendermi, ancora oggi, di fronte alla Tua repentina trasformazione. Quando ci siamo visti, la sera dell’arresto di Carla, apparivi frastornato e incredulo. Cinque giorni dopo, il Tuo volto, assorto e determinato, era quello di un uomo maturo, pronto a fare la propria parte. Come se avessi dovuto rinunciare di colpo ai Tuoi vent’anni (quanti ne avevi allora) per crescere tutto in una volta.
Anche per me, certamente, è stata una prova dura, ma mi ha anche insegnato a saper distinguere tra i rapporti che contano veramente e quelli più aleatori o di semplice convenienza.
In quei giorni a esprimermi la loro vicinanza e solidarietà sono stati in pochi: alcuni colleghi e vecchi amici, le mie sorelle, la mamma di Carla e Tuo padre.
Giuliano è stato il primo che ho incontrato in Via Cimabue, rientrando dalla Questura.
“Se hai bisogno di qualcosa per Cristoforo, fammelo sapere”, mi ha detto.
Poi, la sera è tornato, insieme a Te, per vedere Cristoforo.
A trent’anni di distanza, conservo un ricordo nitido di quei primi giorni.
La mattina dopo (doveva essere un sabato) andai a parlare con Padre Enzo, il direttore della Scuola Media frequentata da Cristoforo. Temevo che, attraverso qualche compagno di scuola, la notizia dell’arresto della Mamma (ripresa, con grande risalto, dai quotidiani locali) potesse arrivargli nel modo peggiore. Per fortuna, grazie all’intervento discreto degli insegnanti, Cristoforo è stato tenuto al riparo da commenti sgradevoli, suscettibili di produrre, su di lui, effetti deleteri.
Dopo di che, la mia (la nostra) attenzione si concentrò interamente su Carla, sui possibili effetti psicologici della carcerazione e sul suo destino processuale.
“Su Sua moglie, il PM ha poco o nulla in mano: la firma su un’autorizzazione e qualche chiacchiera da bar. Però siamo alle solite. Ormai è invalsa la prassi di utilizzare la carcerazione preventiva come strumento di pressione per indurre l’indagato a confessare quello che ha fatto e anche quello che non ha fatto”, mi aveva detto l’Avvocato Barbieri, mentre Carla stava per essere tradotta nel Carcere di Verziano.
Il 23 gennaio, lunedì, per Carla era il giorno del cosiddetto “interrogatorio di garanzia”.
Incrociai l’Avvocato a interrogatorio appena concluso.
È stata dura, molto dura - disse - per ore è stata sottoposta al fuoco di fila delle domande del PM e del GIP e ha respinto con forza le varie contestazione che le sono state mosse. Però ha dovuto riconoscere di aver messo quella benedetta firma, su pressione del collega. Una leggerezza che le costerà cara, perché, a questo punto, non possiamo più puntare sull’assoluzione, ma dobbiamo imboccare la strada verso un patteggiamento, il più decoroso possibile. Il che implica, però, un accordo con il PM”.
Con queste frasi lapidarie - pronunciate nei corridoi del Palazzo Martinengo di Via Moretto, che allora ospitava gli uffici del Tribunale e della Procura - l’Avvocato Barbieri disegnò la strada che Carla avrebbe dovuto seguire per uscire dal tunnel.
Voglio qua ricordare (anche se non ce ne sarebbe bisogno, visto che Tu le hai vissute quanto e forse ancor più di me) le varie “stazioni del calvario giudiziario” di Carla: ventinove giorni in Carcere a Verziano; un altro mese di arresti domiciliari , praticamente da sola, con Cristoforo, perché Tu studiavi a Parma mentre a me l’autorità giudiziaria aveva imposto di lasciare la residenza familiare e di non avere contatti con la coniuge, in quanto coindagato; infine, dopo due anni interminabili di attesa, il patteggiamento con condanna a venti mesi.
Concluso l’iter giudiziario, aveva inizio, per lei, quello disciplinare.
Ai primi di gennaio del ‘98, al termine di una sommaria istruttoria, il Ministero adottò la misura più severa, ovvero il licenziamento.
“Dover perdere il posto per una firma su un documento che comunque avrebbe dovuto essere rilasciato. Assurdo!”, fu la sua reazione, a caldo.
Su mio suggerimento, presentò ricorso avverso il licenziamento innanzi al Collegio arbitrale istituito presso il Ministero.
Di fatto, il dibattimento innanzi al Collegio si trasformò in un nuovo processo, sia pure in sede disciplinare, al termine del quale le responsabilità di Carla, nella vicenda, uscirono fortemente ridimensionate.
Nel luglio del 1998 il Collegio decise di commutare il licenziamento in una semplice sospensione temporanea e Carla poté quindi riprendere il proprio posto di lavoro presso il Centro per l’Impiego di Viareggio, a due passi da Marina di Pietrasanta, dove si era trasferita con Cristoforo sin dal novembre del 1995 e dove aveva ricominciato a lavorare, dal dicembre di quello stesso anno, in attesa che la sua posizione venisse chiarita, prima in sede penale e quindi in sede disciplinare.
Il mio percorso processuale è stato, per fortuna, assai più lineare: il 20 gennaio del ‘95 l’avviso di garanzia, praticamente in coincidenza con l’arresto di Carla; a metà febbraio una sospensione dal servizio disposta, in via cautelare, dall’autorità giudiziaria; a metà aprile la riammissione in servizio a seguito del trasferimento a Piacenza deciso dal Ministero; l’anno successivo il rinvio a giudizio; infine, nel settembre del 1999, ad oltre cinque anni di distanza dall’inizio delle indagini preliminari, l’apertura del processo.
Anche nel mio caso, a rendere intollerabile la situazione sono stati i tempi biblici della Giustizia.
Certo, so bene che è un destino comune a chiunque abbia la sfortuna di finire nel “tritacarne mediatico-giudiziario”, un termine che si attaglia alla perfezione anche alla nostra vicenda. In questa mia lettera non ho voluto insistere sull’aspetto mediatico. Però basterebbe rileggersi tutti gli articoli pubblicati all’epoca, sulla stampa locale e nazionale, per rendersi conto di come la nostra vicenda sia stata gonfiata, ben oltre il limite della “decenza professionale”, a cui ogni giornalista dovrebbe attenersi.
Nel frattempo - “in attesa che la Giustizia facesse il suo corso” - la vita di tutti noi è stata stravolta e il nostro nucleo familiare, per cinque lunghi anni, è stato disperso tra Marina di Pietrasanta, Piacenza e Brescia, dove Tu hai continuato a vivere con Giuliano, sia pure con frequenti “puntate” in Versilia (oltre che a Parma, dove frequentavi l’Università).
Anche sotto questo profilo possiamo considerarci fortunati in quanto (al contrario di molte altre analoghe situazioni) il nostro tessuto familiare ne è uscito indenne.
So che le mie citazioni non Ti piacciono, stridono con il Tuo carattere “lombardo” (come lo definisce Tua madre).
Però stavolta mi devi consentire di citare una frase di Stefania Craxi, tratta dal capitolo dedicato a Carla, in un suo libro pubblicato nel 2005 per le Edizioni Koinè (“Nella buona e nella cattiva sorte”).
“Si sente - scriveva Stefania Craxi, a proposito della nostra famiglia - sonora e come tangibile la solidità di un nucleo compatto, solidale, si sente il senso di una famiglia fattasi fortino”.
Ho voluto ripercorrere (e mi spiace davvero se ciò può aver riaperto in Te vecchie ferite) i cinque anni del “nostro iter giudiziario” perché proprio in quegli anni è cresciuto il rapporto tra noi due.
Per la verità, all’epoca, ci incontravamo di rado, di solito d’estate, in Versilia. Ma era sufficiente qualche rapido scambio di battute per scoprire una piena sintonia.
Se mi venisse chiesto di indicare quando, esattamente, questa sintonia ha potuto esprimersi pienamente (sia sul piano emotivo che su quello più strettamente razionale) non avrei alcuna esitazione a rispondere.
A cementare il legame tra noi (e sono convinto ne converrai anche Tu) sono stati i quattro mesi, da metà settembre 1999 a fine gennaio 2000, durante i quali, a Brescia, si è svolto il dibattimento processuale.
Da cinque anni attendevo l’apertura del processo nella convinzione che, in quella sede, sarebbe stata smontata “l’equazione permessi facili/funzionari compiacenti” fatta propria dalla Procura. Per la verità a smontare l’equazione suaccennata era stata per prima l’ispezione amministrativa disposta dal Ministero all’indomani degli arresti del gennaio’ 95, secondo cui le autorizzazioni per l’assunzione di domestici extraUE, del ‘92/’94, risultavano conformi ad una Circolare Ministeriale del ‘91. Tuttavia, mi sembrava importante che anche in sede penale venisse riconosciuta la regolarità della prassi seguita dall’Ufficio in tema di lavoratori domestici extraUE. Al riguardo, la mia posizione processuale assumeva un rilievo decisivo, essendo io l’unico funzionario pubblico sottoposto a giudizio nell’ambito del “processo dei permessi facili”, come era stato ribattezzato dalla stampa locale.
Con questo spirito, ho assistito a tutte le udienze, da settembre a gennaio, senza perdermi un solo passaggio. Ho seguito con estrema attenzione gli interrogatori e i controinterrogatori dei testimoni, i testimoni dell’accusa in particolare.
E così, udienza dopo udienza, ho visto sgretolarsi la tesi dell’accusa, secondo cui il marchingegno - ideato da un paio di “trafficoni” di Desenzano, per favorire l’ingresso in Italia, come falsi domestici, di cittadini marocchini - presupponeva il ruolo attivo di “funzionari infedeli” dell’Ufficio del Lavoro. In realtà quei “trafficoni” avevano approfittato delle falle aperte dalla Circolare del Ministro del Lavoro del novembre ‘91, laddove era previsto, per il solo lavoro domestico, il rilascio automatico, senza gli accertamenti tassativamente richiesti in tutti gli altri casi, dell’autorizzazione al lavoro, su semplice istanza di un richiedente che dichiarava, sotto la propria responsabilità, di voler procedere all’assunzione di un collaboratore familiare extracomunitario.
Anche Tu eri spesso presente a quelle udienze e le Tue doti di osservatore attento hanno contribuito - attraverso i Tuoi scarni commenti, sempre molto lucidi e azzeccati - a rafforzare quel senso di “fiduciosa attesa”, che stava pian piano maturando dentro di me.
Finalmente, è arrivato il giorno dell’udienza finale, il 27 gennaio del 2000.
Quella mattina, in aula, con me e con Carla, c’eri pure Tu.
Insieme abbiamo seguito le arringhe della D.ssa Bonardi, il Pubblico Ministero, e di tutti gli Avvocati, difensori e di Parte Civile (per la verità l’unica Parte Civile, in quel processo, era il Ministero del Lavoro, rappresentato dall’Avvocatura dello Stato).
Abbiamo ascoltato, “in religioso silenzio”, l’arringa dell’Avvocato Barzellotti, il mio Avvocato, che ha smontato, punto per punto, l’impianto accusatorio, su entrambi i capi d’imputazione a mio carico, l’abuso d’ufficio e il favoreggiamento.
Ricordo il Tuo sorriso, al termine dell’arringa del mio difensore, un sorriso più eloquente di mille parole.
Poi, nel pomeriggio, siamo tornati in aula, in attesa che i giudici rientrassero dalla Camera di consiglio.
In quel momento di forte tensione, la Tua faccia sorridente sembrava essere l’unico antidoto, capace di placare le ansie, mie e di Tua madre.
Dopo un’attesa infinita (quaranta minuti, sessanta, settanta? in quei momenti perdi la cognizione del tempo) giunse “l’ora della verità”.
Mentre il Presidente Zaza leggeva il dispositivo della sentenza, Tu eri in piedi, dietro di me.
Io facevo molta fatica a districarmi tra tutti i nomi degli imputati, italiani e stranieri, e poi gli articoli del Codice…
D’improvviso ho sentito la Tua mano su di me e, qualche istante dopo, le Tue parole: “È fatta, Paolo, assoluzione piena per entrambi i capi d’imputazione”.
Mi sono soffermato, sin qui, sui momenti cruciali del rapporto che si è andato sviluppando tra noi, nel corso degli anni, per poter esplicitare con chiarezza l’idea che ho maturato nei primi mesi di quest’anno, mentre ero intento a scrivere il mio ultimo romanzo breve.
I rapporti più autentici sono quelli che si costruiscono col tempo, nel rispetto dell’altro o degli altri, affrontando insieme le prove a cui la vita, prima o poi, ci sottopone.
È questo, Alessandro, il messaggio che vorrei lasciarti e che mi auguro possa essere, per Te, la bussola capace di orientare le Tue scelte anche negli anni a venire.
Paolo