Cristoforo carissimo,
È probabile che questa mia lettera - la prima in tanti anni - possa sembrarti, sulle prime, abbastanza singolare.

Cristoforo Vettori
L’idea di scriverti è nata quasi per caso, mentre stavo rileggendo le bozze del racconto dedicato alle vicissitudini giovanili del nonno (il Tuo bisnonno), che mi ha assorbito per mesi, riportandomi oltretutto agli esordi, anch’essi carichi di presagi minacciosi, di questo secolo tremendo, che sta ormai per chiudersi.
Voglio subito tranquillizzarti.
Non ho alcuna intenzione di “affliggerti” con discorsi astratti, che, oggi come oggi, sarebbero inevitabilmente destinati a cadere nel vuoto o magari a suscitare in Te un senso di fastidio.
Sarebbe, del resto, una reazione del tutto naturale.
Ogni stagione ha i suoi frutti.
La tua è la stagione della scoperta del mondo esterno ed è quindi pienamente comprensibile che le tue giovani energie siano tutte proiettate verso gli amici, i compagni di scuola o anche semplicemente verso i simboli della civiltà tecnologica e telematica, in una parola verso tutto ciò che rappresenta, ai tuoi occhi di diciottenne, il nuovo.
Non ho certo la pretesa di proporti, oggi, aspetti della vita, che io stesso ho scoperto alla soglia dei cinquant’anni e attraverso un percorso doloroso. Ci arriverai, con ogni probabilità, anche prima di me e soprattutto (mi auguro) al termine di un percorso meno tortuoso del mio, ma dovrai arrivarci con le tue gambe.
Una cosa, però, mi sento di dirtela subito, anche per rispondere a una domanda che mi hai posto ai primi di febbraio di quest’anno, mentre ero alle prese con la stesura del libro.
Allora, nell’intento di esaudire la tua inesauribile curiosità, ti raccontai (scherzando, ma non troppo) che mi stavo avventurando in un lungo viaggio a ritroso nel tempo, un viaggio che, sull’onda dei remoti racconti del nonno, aveva come meta finale la vigilia della Prima Guerra Mondiale, con la sua atmosfera particolarissima, sospesa tra i fasti della Bella Époque e i segni premonitori di uno sconvolgimento epocale, destinato a spazzar via, in pochi anni, un mondo intero.
“Che bisogno c’è di tornare così indietro nel tempo?”, replicasti Tu, a bruciapelo, lasciandomi decisamente spiazzato.
E non perché mi mancassero gli argomenti, tutt’altro.
Avrei potuto darti molte risposte diverse, sul piano storico (le analogie e i legami tra passato e presente, riproposti con forza, un mese più tardi, dallo scoppio del nuovo conflitto nei Balcani) o, meglio ancora, sul piano personale, psicologico.
Ma tutte le risposte che si affacciavano alla mente in quel momento mi sembravano parziali, o comunque inadeguate.
E così cercai di glissare.
Soltanto adesso, a un paio di mesi dalla conclusione del libro, si fa strada, dentro di me, una particolare chiave di lettura, che investe direttamente il mio ruolo di padre.
Scorrendo velocemente “L’ultima estate di pace”, mi rendo conto che proprio Tu sei stato il principale interlocutore (e a tratti anche il compagno) del viaggio ideale alla riscoperta delle radici familiari.
Lo dimostra il linguaggio che ho utilizzato, in particolare il ricorso a neologismi o anche a espressioni tipiche della tua generazione, talora in stridente contrasto con l’atmosfera descritta nelle mie pagine (specialmente in quelle dedicate al mondo austro-ungarico), che si spiega, però, con la tua costante presenza, quale primo destinatario.
Mi auguro che un giorno (certamente non oggi) Tu abbia modo di rileggere queste pagine con una consapevolezza diversa, che solo le vicissitudini della vita potranno darti.
Allora, probabilmente, capirai quanto sia importante (per i singoli non meno che per i popoli) la riscoperta delle proprie radici, a patto che non si trasformi in una pretestuosa forma di difesa rispetto “all’altro”, ma costituisca, al contrario, un passaggio necessario per arrivare a cogliere fino in fondo la complessità, e al tempo stesso la ricchezza, delle relazioni umane.
In questo spirito, Cristoforo, ho pensato di dedicare a Te il libro.
Con l’affetto di sempre
Papà