Praga 29 Giugno 2013
Il suono metallico della sveglia mi strappa bruscamente dalle braccia di Morfeo.
Mi alzo di scatto, come se dovessi prepararmi in fretta e correre verso la Stazione.
“Che fai, Paolo? Non devi più andare a Genova, ormai sei in pensione”, mi dico, mentre lo sguardo si dirige in maniera del tutto automatica verso la luce fioca che filtra attraverso i vetri socchiusi della finestra.
alcune immagini del viaggio a Praga
In un attimo scorre innanzi ai miei occhi, ancora assonnati, il “film” di ieri: Giuliano che viene a prenderci a casa per accompagnarci in Aeroporto, il check-in e i controlli al metal detector, il breve volo e lo “sbarco” all’Aeroporto di Praga, il trasbordo verso il centro città su una navetta stracolma di turisti, infine l’arrivo in albergo, a due passi dalla Piazza San Venceslao, a cui sono legati molti dei miei ricordi praghesi, risalenti a quasi quarant’anni fa, all’estate del ‘74, per l’esattezza.
Un ritorno a Praga per me abbastanza anomalo, anzitutto per il modo in cui è nato questo viaggio.
Il 31 maggio, mio ultimo giorno di lavoro, i colleghi della Liguria e del Piemonte, ben conoscendo la mia passione per i viaggi, hanno pensato bene di regalarmi un bonus presso una nota Agenzia turistica, a due passi dal Porto Antico a Genova.
“Così, quando te ne andrai a spasso per il Mondo, penserai a noi” ha commentato, consegnandomi la busta, Vera, con la quale ho condiviso questi ultimi sei anni di “viaggio” nel Ministero del Lavoro, da quando lei è venuta a fare la direttrice provinciale in Liguria, prima a Savona e poi a Genova.
Da questo regalo inaspettato, ma particolarmente gradito, è nata l’idea di un weekend a Praga, per far conoscere a Carla ed Alessandro uno degli angoli più suggestivi della vecchia Europa (avrebbe dovuto venire anche Cristoforo, ma lui, in questo periodo, è tutto preso dai suoi impegni legati alla recitazione, concentrati proprio nei fine-settimana).
Ovviamente, viaggiare con la famiglia implica un’organizzazione del viaggio completamente diversa da quella che caratterizza le mie escursioni solitarie verso la Polonia, e non solo.
Tuttavia, ora che è giunto il momento, scopro, con una certa sorpresa, che in fondo non mi dispiace provare per una volta a “fare il turista”, tanto più che la Praga di oggi sembra prestarsi benissimo allo scopo, essendo diventata una specie di “Mecca” del turismo convenzionale.
Appena arrivati alla “reception” dell’albergo, ieri pomeriggio, siamo stati letteralmente sommersi da depliants in tutte le lingue (compreso il “cinese mandarino”) con le più disparate offerte di tour guidati.
Ce n’è perfino uno dedicato alla “vita ai tempi del comunismo”, con tanto di visita al bunker nucleare, costruito per ospitare, nell’eventualità di un conflitto atomico, la nomenclatura del vecchio regime. Con ogni probabilità, penso, l’iniziativa sarà stata concepita da qualche “tour operator” nordamericano, magari lo stesso che, un paio di anni fa, ha avuto l’idea di trasformare Alcatraz, un tempo inaccessibile isola-carcere di fronte alle coste della California, in un grande albergo per turisti alla ricerca di emozioni forti. E invece -ci tiene a sottolineare il portiere, da me interpellato- questa singolare offerta turistica sembrerebbe aver riscosso un gran successo non solo tra i visitatori statunitensi o giapponesi, ma anche tra quelli provenienti dall’Europa Occidentale, Italia compresa.
Per fortuna Carla ed Alessandro non sono affatto attratti da questo genere di proposta, essendo invece interessati ad un “tour guidato” di tipo classico, alla scoperta dell’inestimabile patrimonio artistico ed architettonica della città che contende a Vienna il titolo di “capitale della MittelEuropa”.
Alla fine la scelta cade su una soluzione “all inclusive” che comprende la visita dei vari quartieri storici, una breve navigazione sulla Motlava e un pranzo in una delle tipiche birrerie della città vecchia. Considerando il breve tempo disponibile (di fatto una sola giornata, se si escludono quelle dell’arrivo e della partenza) convengo anch’io che si tratta di una soluzione ragionevole, capace di offrire, specie a chi viene qua per la prima volta, una visione d’insieme di una città meravigliosa ma complessa e magari di stimolare successivi viaggi più mirati.
Certo, questo significa -penso tra me e me- che la giornata di oggi sarà particolarmente impegnativa, specie per Carla ed Alessandro, che non sono allenati per escursioni di questo tipo.
Decido quindi di lasciarli dormire ancora un po’ e, nell’attesa, mi concedo, nella sala ristorante a pian terreno, un’abbondante colazione, assai simile a quella che si potrebbe gustare a Vienna o a Salisburgo: gli immancabili würstel accompagnati da una senape non particolarmente piccante, affettati vari tra cui primeggia il prosciutto di Praga e infine uno yogurt delizioso di grande digeribilità, come ben di rado mi è capitato di assaggiarne.
Anche Carla ed Alessandro, che nel frattempo mi hanno raggiunto, mostrano di gradire questa colazione “mitteleuropea”.
Alle dieci in punto viene a prenderci il pullman dell’agenzia, per lasciarci, un quarto d’ora dopo, nella grande Piazza di fronte al Castello, già “occupata” da una rumorosa armata multiforme e soprattutto multilingue (nell’aria risuonano parole dei più diversi ceppi linguistici, europei ed asiatici).
Il che mi riporta indietro di quarant’anni, all’atmosfera che avevo vissuto, ai primi di luglio del ‘74, in questi stessi luoghi. Allora la piazza appariva desolatamente vuota, a parte gruppetti di poliziotti, in uniforme o in borghese, a protezione dei massimi vertici del potere comunista che, sei anni prima, i carri armati sovietici, e degli altri Paesi “fratelli”, avevano reinsediato nel Castello, tradizionale sede dell’“Autorità” sin dai tempi in cui ospitava i Re di Boemia.
Ero arrivato a Praga, da Cracovia, già da qualche giorno e mi ero già girato tutte le birrerie attorno a Piazza Venceslao e molte di quelle situate nella città vecchia.
Ma mi ero tenuto ben lontano dal Castello, in quanto non me la sentivo di addentrarmi da solo nella zona cittadina più sorvegliata dalla Polizia.
Poi, per mia fortuna, mi ero imbattuto, una sera, in una birreria accanto alla suggestiva Chiesa di Santa Ludmilla, in due turisti polacchi, uno più o meno della mia età e l’altro sulla cinquantina.
Provenivano da Legnica, non lontano dal confine, e avrebbero concluso la loro gita a Praga il giorno dopo, con una visita al Castello.
Chiesi di potermi unire a loro e alla fine i due - inizialmente riluttanti perché evidentemente non ritenevano prudente visitare il “Castello” in compagnia di uno sconosciuto, per di più proveniente da uno Stato del “campo capitalista”- si decisero ad acconsentire, a condizione, però, che io non aprissi bocca.
La mattina seguente prendemmo insieme un taxi che ci lasciò a due passi dai cancelli presidiati dalle sentinelle, non lontano dalla statua di Thomas Masaryk, il primo presidente, nel 1918, della Cecoslovacchia, dove stamattina è stato fissato l’appuntamento con la nostra guida e con gli altri turisti italiani.
Mentre attendo, insieme a Carla ed Alessandro, l’arrivo della guida, mi sembra di rivivere la scena di trentanove anni fa. Stanislaw -questo il nome del polacco più anziano- parlava col suo amico, sforzandosi di apparire normale e tenendo in mano, ben visibile, il giornale che aveva acquistato subito prima di salire sul taxi, “Tribuna Ludu”, organo ufficiale del Partito Operaio Unificato Polacco, il Partito Comunista. Io camminavo a fianco del più giovane, muto come un pesce.
Debbo confessare, però, di essermi fatto prendere in quei momenti dalla paura (o forse sarebbe più esatto parlare di vero e proprio panico) che qualcuno dei tanti gendarmi presenti potesse chiedermi i documenti.
Mi guardavo attorno nel tentativo di riconoscere tra i passanti qualche altro turista ma i pochi passanti parevano avere una gran fretta. Soltanto io e i miei due amici sembravamo interessati ai monumenti.
Ci fermammo qualche minuto (che a me dovette sembrare un’eternità) di fronte alla facciata neogotica della Cattedrale di San Vito, sotto lo sguardo vigile di una decina di sbirri. Poi Stanislaw, sempre con il “Tribuna Ludu” ben visibile in mano, si avviò verso l’uscita, prontamente seguito dal suo amico e da me e, con un taxi, riguadagnammo velocemente Piazza San Venceslao.
Mentre rivivo silenziosamente questo “film”, vecchio di 39 anni, non posso fare a meno di sorridere di fronte ai turisti che fanno pazientemente la coda per potersi scattare una foto insieme ad uno dei due gendarmi di guardia alla residenza presidenziale. Nessuno di loro potrebbe immaginare l’atmosfera di terrore che si viveva da queste parti, sino al novembre ‘89, il mese del crollo del muro di Berlino ma anche della “rivoluzione di velluto” che vide le piazze di Praga e delle altre città del Paese al centro di una protesta pacifica conclusasi, un mese dopo, con la salita al Castello come Presidente (nominato “ a furor di popolo” è proprio il caso di dire) di Vaclav Havel, drammaturgo e leader carismatico della resistenza al regime.
Intanto cominciano ad arrivare alla spicciolata gli altri componenti della “comitiva”, per primi due giovani (probabilmente una coppia di sposini in viaggio di nozze) provenienti dal Canton Ticino, “extracomunitari”, si definiscono scherzosamente.
Dopo qualche minuto si aggiungono altre due coppie, una signora sarda, che insegna nelle scuole italiane a Liegi, accompagnata dal marito e un’altra coppia di sposini freschi, romani di Trastevere. “Anche loro extracomunitari”, scherzo io, riferendomi allo Stato del Vaticano, situato oltre Tevere.
Finalmente arriva, trafelata, la nostra guida, Hanna, una signora della mia età, che il sabato e la domenica sostituisce le guide più giovani “per arrotondare -ci tiene a sottolineare- la magra pensione”.
Inizia la visita al Castello, che in realtà -sottolinea la guida- è un complesso di sessanta edifici, tra palazzi nobiliari e chiese, risalenti a periodi diversi.
Ad attirare la mia attenzione è anche stavolta la Cattedrale di San Vito, un enorme complesso religioso -edificato nell’arco di ben sei secoli, dal Trecento sino alla prima metà del Novecento- che riassume alla perfezione questa sovrapposizione di stili, quasi a sottolineare le molteplici anime di una città, abituata a vivere nel bel mezzo delle grandi correnti culturali e religiose d’Europa.
Mentre il nostro “tour” si dipana tra i diversi edifici storici che compongono il Castello di Praga, mi vedo costretto a riconoscere che, nella mia rapidissima escursione nell’estate del ‘74, non avevo visto praticamente niente degli innumerevoli tesori conservati tra queste mura. E in effetti più che di una visita turistica si era trattato di un’incursione nel cuore del potere politico, una sorta di silenziosa sfida al regime politico di allora.
Dopo un’ora e mezzo, ci fermiamo per una breve sosta nel Parco.
Ne approfitto per conversare con Hanna e chiederle come ha vissuto il crollo del regime comunista.
Lei non si fa pregare due volte e in poche ma efficaci battute mi riassume la sua esperienza personale.
“Ero ragioniera in una grande impresa statale qua a Praga”.
“Il lavoro com’era?”chiedo.
“Facevamo finta di lavorare per uno Stato che, a sua volta, faceva finta di pagarci”, sorride, parafrasando una vecchia battuta divenuta famosa.
“Poi però -continua, con tono non più scherzoso- nel ‘92, con la nuova economia di mercato, l’impresa è fallita e ci siamo trovati tutti in mezzo alla strada”.
Mi sembra di sentire una storia molto simile a quella di Joanna, che aveva perso anche lei, più o meno nello stesso periodo, il proprio impiego statale. Anche Hanna si era data da fare e, grazie alla conoscenza delle lingue straniere acquisita nel suo lavoro, era riuscita ad instaurare un rapporto di collaborazione con un grande tour operator italiano, negli anni in cui la capitale ceca stava diventando uno dei principali poli del turismo europeo.
“Con loro -prosegue- ho potuto capire come funziona realmente il capitalismo, ci trattavano da schiavi”.
“Ma non avevi le tutele previste per i dipendenti?”, mi viene spontaneo chiederle, forse per una sorta di deformazione professionale, legata alla lunga esperienza al Ministero del lavoro.
“Ero una semplice collaboratrice esterna, non una dipendente, e comunque -ammette- grazie a quell’esperienza ho potuto imparare l’Italiano, il che mi consente, oggi, di arrotondare la pensione, sostituendo, nei fine-settimana. le colleghe più giovani”.
“Quanto prendi di pensione?”.
“Più o meno 500 euro al mese ma, con il tenore di vita che il turismo ha portato qua a Praga, riesco a mala pena ad arrivare a metà del mese, per cui sono costretta a lavorare”.
“Però oggi, almeno, non dovete più fare la coda di fronte a scaffali vuoti”, provo a consolarla, ripensando allo sketch che mi è capitato di vedere in teatro a Varsavia, una decina di giorni fa.
“Certo, oggi c’è tutto, peccato che manchino i soldi, almeno per noi pensionati”.
“Certe volte -aggiunge, con aria stizzita- mi verrebbe da spengere il televisore, di fronte alla pubblicità che reclamizza i prodotti più disparati, tutti dai prezzi impossibili, per noi”.
“E per i giovani com’è la situazione?”.
“Per loro è molto diverso -riconosce- imparano le lingue straniere sin dalla tenera età e, volendo mettere da parte un bel gruzzoletto, possono andare a lavorare in Germania o altrimenti, se preferiscono rimanere qua, non hanno difficoltà a trovare un’occupazione in una delle mille attività legate al turismo”.
Mi viene spontaneo un paragone con l’Italia: da noi sono i giovani a dovere affrontare le difficoltà maggiori, esattamente il contrario di quanto accade a Praga o in Polonia.
“La nostra -conclude amaramente Hanna- è una generazione perduta. Stavamo male sotto il Comunismo ma la vita oggi, almeno per chi vive di sola pensione, è decisamente peggiorata. E non ci consola nemmeno la consapevolezza che i nostri figli o nipoti hanno delle opportunità che, prima dell’Ottantanove, erano addirittura inimmaginabili”.
Intanto gli altri componenti della comitiva cominciano a manifestare qualche segno di impazienza.
È ora di riprendere la nostra “lunga marcia” attraverso i mille tesori che questa città offre generosamente alla vista del turista.
Seguendo la nostra guida, arriviamo in pochi minuti al “Piccolo Quartiere” (Mala Strana, in ceco) adagiato sulla collina del Castello, verso il fiume.
Imbocchiamo Via Neruda, così intitolata -ci dice la guida- non in onore del premio Nobel cileno, Pablo, ma di un poeta e scrittore ceco dell’Ottocento, Jan Neruda, un illustre sconosciuto per moltissimi stranieri, me compreso (ma non per Pablo che si sarebbe ispirato proprio a lui nello scegliere il nome d’arte).
Nome a parte, è una via stretta ma pittoresca, su cui si affacciano palazzi nobiliari e negozi o laboratori artigianali.
Hanna tiene a sottolineare che questo quartiere è il meglio conservato dell’intero centro storico della città. “Qua -aggiunge- non si costruisce più dal Settecento per cui tutto quello che vedete risale a prima di quell’epoca, soprattutto al Cinquecento e al Seicento, il che spiega la netta prevalenza dello stile barocco nei palazzi della zona”.
Per la verità, la nostra guida sembra interessata a farci conoscere, più ancora delle bellezze architettoniche, le botteghe artigiane e i negozietti che espongono prodotti dell’artigianato locale ma anche specialità della pasticceria ceca. Io e Carla ci limitiamo ad assaggiare il “panforte di Praga” che non ha niente a che vedere con l’omonimo prodotto senese ma ricorda, caso mai, il gusto delicato di certi dolcetti austriaci.
Più o meno a metà di Via Neruda, passiamo davanti all’Ambasciata Italiana.
“Proprio qua, davanti all’Ambasciata del mio Paese -dico rivolto ad Hanna- mi sono fermato a lungo, in una calda mattinata estiva del ‘74”.
“Eri solo?” mi chiede.
“Sì” mi limito a rispondere, non capendo il senso della domanda.
“Per fortuna, perché se ci fosse stato con te qualcuno dei nostri avrebbe sicuramente passato un grosso guaio”, così dicendo mi indica il palazzo di fronte all’Ambasciata.
“Da quelle finestre -aggiunge- la Polizia filmava chiunque entrasse nell’Ambasciata e, se si trattava di uno dei nostri, correva come minimo il rischio di perdere il posto di lavoro”.
Le parole di Hanna mi riportano al clima di controllo poliziesco della Cecoslovacchia del periodo successivo all’invasione sovietica, un clima molto diverso da quello che si respirava negli stessi anni in Polonia o in Ungheria.
Solo a Berlino Est -e nelle altre città della Germania comunista da me visitate negli anni ‘70- ricordo di aver provato la stessa soffocante sensazione di un controllo poliziesco onnipresente.
Intanto ci stiamo dirigendo verso il cuore del quartiere, la grande Piazza di Mala Strana, dominata dalla Cattedrale Cattolica di San Nicola, con la sua cupola e il campanile che svettano in mezzo ai palazzi barocchi, disposti tutt’attorno.
Ad attrarre la mia attenzione è però la scena che si sta svolgendo davanti al Municipio: una coppia di sposi sta entrando dentro una limousine bianca, di quelle che si possono ammirare nei film holliwoodiani di mezzo secolo fa; attorno, una piccola folla di parenti ed amici intenti a scattare foto.
“Americani?”chiedo.
“No russi, ne arrivano a decine la settimana; il matrimonio all’americana a Praga -aggiunge Hanna- sta ormai diventando una moda tra i mezzi ricchi di Mosca, quelli che non si possono permettere una luna di miele nei grandi alberghi di Venezia o Parigi, e tanto meno di New York, e vengono qua a Praga, per una cerimonia meno costosa, ma assolutamente in linea con i gusti americani che hanno conquistato le classi emergenti della nuova Russia”.
“Povero Lenin” mi dico, pensando al leader russo che, meno di un secolo fa, aveva guidato la rivoluzione bolscevica, nell’illusione che il processo rivoluzionario potesse portare, nel giro di poche generazioni, alla nascita di un “uomo nuovo”.
Hanna guarda nervosa l’orologio; probabilmente siamo in ritardo rispetto alla tabella di marcia perché, improvvisamente, decide di puntare verso il Ponte Carlo, saltando tutta una vasta area del quartiere, anch’essa ricca di monumenti, dalla Via del Ponte alla Via degli Italiani, così chiamata in quanto aveva ospitato, dal Cinquecento al Settecento, una colonia numerosa e molto attiva di nostri connazionali, composta in prevalenza da artigiani ma in mezzo alla quale non mancavano artisti rinomati, venuti a portare il loro contributo all’abbellimento di questa città, come avevano fatto del resto in altre grandi capitali europee, da Vienna a San Pietroburgo.
Camminando a passo veloce. raggiungiamo in pochi minuti la Torre da cui si accede al Ponte, ora trasformato in isola pedonale, a beneficio dei tanti turisti e degli stessi praghesi, che vogliono gustarsi con calma quest’angolo della vecchia Europa.
La nostra guida ci concede dieci minuti per visitare il ponte.
“Vi aspetto tra dieci minuti esatti sul lato opposto, mi raccomando la puntualità perché dobbiamo imbarcarci”.
Mentre Hanna si allontana a passo spedito, mi guardo attorno un po’ disorientato di fronte alla folla che si muove lenta nelle due direzioni. Più che una passeggiata, sembra uno slalom in mezzo ai turisti in posa per la classica foto ricordo.
Non posso fare a meno di pensare con un pizzico di nostalgia a quando, nel luglio del ‘74, ero venuto qua per la prima volta.
Allora, mi ero fermato a lungo ad ammirare le statue dei Santi (non solo San Venceslao ed altri appartenenti al mondo slavo e centro-europeo ma anche San Francesco d’Assisi e Sant’Antonio da Padova) che, tra il Seicento e il Settecento, erano state collocate ai bordi del ponte.
Per la verità a colpirmi era stato soprattutto l’impianto del ponte trecentesco, costruito con blocchi di pietra arenaria, da cui deriva quel colore particolare, tendente al giallo, che accomuna molti dei monumenti storici di questa città.
Avevo provato allora la sensazione, per me piacevolissima, di un viaggio a ritroso nel tempo, al Cinque/Seicento, quando il ponte -all’epoca il solo a collegare le due sponde- era attraversato da carrozze o da carovane di mercanti.
Probabilmente, mi dico, per provare la stessa sensazione, dovrei tornarci verso gennaio o febbraio, quando i rigori dell’inverno tengono alla larga la massa dei turisti.
Nel frattempo siamo arrivati sull’altro capo del ponte, dove ci aspetta Hanna.
Mentre stiamo camminando verso l’imbarcadero, le dico di aver visto, ieri sera, in televisione, un servizio sul sequestro di massicce quantità di carne avariata proveniente dalla Polonia, effettuato a seguito dei controlli dei servizi veterinari.
“In effetti -spiega lei- da noi non esiste praticamente più l’agricoltura, dopo la dissoluzione delle fattorie statali dell’era comunista, per cui siamo costretti ad importare gran parte del nostro fabbisogno alimentare dalla Polonia, e i polacchi ci rifilano spesso e volentieri carne avariata o prodotti di pessima qualità, che non oserebbero mai esportare in Germania”.
Sorrido, perché le sue parole nascondono quel sentimento di diffidenza, tra polacchi e cechi, che mi è capitato talvolta di cogliere nei miei viaggi ferroviari da Cracovia a Danzica e viceversa, su cui hanno fatto leva prima i tedeschi e poi i sovietici, utilizzando la tecnica, già ampiamente sperimentata dagli antichi Romani, del “divide et impera”.
Appena l’intera comitiva si è sistemata a bordo del battello, ha inizio la nostra breve navigazione, che mi consente di scoprire alcuni angoli suggestivi, sfuggiti alla mia “incursione praghese” del ‘74.
Imbocchiamo il braccio di fiume che separa Mala Strana dall’isoletta di Kampa, in un paesaggio assolutamente idilliaco, a dispetto del nome, Certovka o “ruscello del diavolo”, che trae origine da una leggenda popolare del XIX secolo.
Da qua si possono scorgere le ruote di uno dei pochi mulini superstiti, di quelli che, sino ad un paio di secoli fa, contornavano questo tranquillo braccio della Motlava.
Superato un ponticello, appena dopo il mulino, le acque del “Certovka” continuano a scorrere placidamente in mezzo a due file di case.
“Sembra di essere a Venezia, peccato che manchino le gondole”osservo.
“E infatti -ci tiene a precisare Hanna- vi hanno girato parecchie scene di film ambientati sulla Laguna, compresa una famosa scena dell’ultimo film di Tornatore”.
“Che senso ha ricorrere ad una copia quando si può disporre dell’originale?”, le chiedo.
“Banali motivi economici -sorride- girare un film qui costa molto meno che a Venezia”.
Intanto si avvicinano i due sposini di Trastevere.
“Quand’è che andiamo a pranzo?” chiede lui.
“Tra pochi minuti attracchiamo all’imbarcadero della Città Vecchia e andiamo subito a mangiare” lo tranquillizza la nostra guida.
Infatti nel giro di un quarto d’ora siamo nel cuore della Città Vecchia, davanti ad una delle tipiche birrerie del quartiere.
Scendiamo nello scantinato, dove il nostro tavolo è già apparecchiato.
Non c’è elettricità e l’unica luce disponibile è quella che promana dalle grosse candele sistemate sui blocchi di pietra arenaria che contornano l’angusto locale.
Ho la netta sensazione di esserci già stato e in effetti, nell’estate del’74, di locali come questo ne ho visitati più d’uno, qua nella Città Vecchia.
Proprio in locali di questo tipo, mi sembrava di respirare a pieni polmoni l’atmosfera cupa di una città sottoposta ad un capillare controllo poliziesco
Me ne stavo da solo per intere mezz’ore, davanti ad un piatto di würstel e ad un boccale di birra, ad osservare gli altri clienti, che, da soli o in piccoli gruppi, si scolavano una birra dietro l’altra.
Oggi, ovviamente, Praga ha tutto un altro aspetto.
Eppure questo locale ha il potere di farmi rivivere le sensazioni di trentanove anni fa, mentre mi gusto i piatti tipici della cucina mitteleuropea: una zuppa di patate, il goulasch e una sachertort.
Finito il pranzo ci dirigiamo verso la Piazza della Città Vecchia, che, in poche centinaia di metri, racchiude molte preziose testimonianze architettoniche ed artistiche, risalenti ad epoche diverse, dal vecchio Municipio con l’orologio astronomico e la torre, alla chiesa di Santa Maria di Tyny e a quella hussita di San Nicola sino a Palazzo Kinsky e agli altri palazzi patrizi che attorniano la Piazza.
Solo per conoscere bene questo angolo di Praga, così ricco di storia, ci vorrebbe una giornata intera.
Per fortuna conservo, pur a distanza di tanti anni, ricordi abbastanza precisi, altrimenti farei veramente fatica a seguire Hanna, che ci illustra i vari monumenti, con la stessa rapidità e lo stesso piglio di un generale che sta passando in rassegna le proprie truppe, schierate nella piazza d’armi. Alcuni componenti della comitiva sono impegnati a scattare foto mentre altri cominciano a manifestare chiari segni di stanchezza.
Il nostro tour “mordi e fuggi” si conclude nel vicino Quartiere Ebraico, che per la verità conserva ben poche tracce di quello che è stato, sino al 1890, uno dei più grandi ghetti d’Europa. Oggi è semplicemente un quartiere moderno -con alcune delle più eleganti vie cittadine, come Via Parigi affollata da ristoranti e negozi di lusso- e con qualche rara testimonianza della secolare presenza dei figli di Davide: il Municipio Ebraico, il Cimitero e un paio di Sinagoghe.
Niente di paragonabile, neanche lontanamente, al Quartiere Kazimierz a Cracovia.
Hanna ci accompagna al pullman, che ci porterà alle nostre destinazioni, e noi la ringraziamo di cuore per l’impegno con cui ha cercato, in poche ore, di darci un’idea di questa città così complessa.
Con Carla ed Alessandro scendo in Piazza san Venceslao di fronte al Museo Nazionale, situato alle spalle della statua equestre del santo ed eroe nazionale ceco. Da qua si domina l’intera piazza, teatro, nel XX secolo, di tutti i grandi eventi storici, dalla nascita della Cecoslovacchia seguita al crollo dell’impero asburgico sino alla Primavera di Praga e infine alla “Rivoluzione di velluto” del novembre’89. Alessandro ne approfitta per scattare altre foto mentre io e Carla ci fermiamo qualche minuto davanti al Museo Nazionale, proprio nel punto in cui, nel ‘69, si era dato fuoco Jan Palach. L’estremo gesto di protesta del giovane (che, all’epoca, aveva la mia stessa età, 21 anni) è oggi ricordato da una semplice lapide, in cui sono riportate le date di nascita e di morte di Jan e di un suo compagno, che ha sacrificato anche lui la propria vita per la stessa causa.
La stanchezza comincia però a farsi sentire, per cui -appena Alessandro torna verso di noi, soddisfatto di aver completato il suo “servizio fotografico” per il proprio profilo Facebook- ce ne torniamo in albergo.
Se fosse per me, rimarrei volentieri in camera, ma, alla fine, è Alessandro a scuotermi dal mio torpore. “Ho visto sulla cartina che qua dietro c’è un ristorante tipico, ‘U kalicha’, si chiama”.
Nel sentire quel nome, scatto in piedi come se fossi stato morso da una tarantola.
U kalicha (il calice, in Italiano) mi riporta infatti al celeberrimo romanzo di Jaroslav Hasek.
Sono proprio i discorsi strampalati pronunciati, all’indomani dell’attentato di Sarajevo, in questa osteria di Praga a dare inizio alle disavventure del “buon sodato Sc’veik”, tra manicomi, caserme e tradotte per le truppe “imperialrege” dirette al fronte.
Sullo sfondo del romanzo, si intrecciano due fenomeni epocali del primo Novecento: la lenta ma inesorabile dissoluzione di un impero e l’assurdità di un conflitto destinato a sfociare in un massacro di dimensioni fino a quel momento inimmaginabili, nella storia dell’umanità.
Il tutto condìto dall’umorismo, un umorismo sarcastico ed irresistibile, che ne ha decretato il successo mondiale e che costituisce il tratto distintivo non solo dell’opera di Hasek, ma, più in generale, della letteratura ceca contemporanea.
L’idea di una cenetta nell’osteria, che ha legato il proprio nome alla “creatura” più conosciuta di Hasek, riesce a spazzar via ogni sintomo di stanchezza.
Alle nove in punto varchiamo la soglia di “U Kalicha” e ci imbattiamo, già nell’anticamera, in un fantoccio di plastica, con le sembianze di Sc’veik e l’uniforme sdrucita dell’Imperial-regio esercito, sdraiato su una sedia sgangherata, proprio di fronte alla toilette.
Ci accomodiamo all’interno; il locale, a quest’ora, è avvolto nella penombra, in cui si riesce a distinguere solo il volto dei rari clienti e il profilo dei tavoloni di legno pesante, come se ne potevano trovare, sino a cinquant’anni fa, anche in Italia.
Ordiniamo la cena e, mentre il cameriere si allontana, Carla ha un sobbalzo improvviso. Dietro di lei c’è un uomo sdraiato sulla sedia; non si tratta, però, di un ubriaco ma di un altro fantoccio di plastica, che ritrae “l’antieroe” più famoso della letteratura mitteleuropea.
L’episodio infonde a tutti noi un’allegria particolare, che ci accompagna per tutta la serata e ci fa gustare ancor meglio i piatti tipici di queste terre.
“Non avrei mai immaginato di cenare insieme al buon soldato Sc’veik nella sua osteria preferita”, dico sorridendo, mentre lasciamo il locale.
Con questa battuta scherzosa, si conclude la mia giornata praghese “da turista mordi e fuggi”, grazie alla quale sono però riuscito a rivivere, in modo del tutto inaspettato, emozioni di un tempo ormai lontano.