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Otto giorni in Armenia e nel Nogorno Karabakh

13 Agosto 2013

Primo giorno di questo viaggio alla scoperta di un popolo, l’armeno, che ha sempre suscitato in me una istintiva simpatia, per la tenacia con cui ha saputo rimanere fedele alla propria identità culturale e religiosa -per secoli gelosamente custodita nei monasteri abbarbicati sui monti tra il Caucaso Meridionale e il lago di Van- e strenuamente difesa a costo di sacrifici enormi, sino al genocidio del 1915/16, che i politici turchi di ogni tendenza (gli islamisti, oggi al potere ad Ankara, non meno dei loro oppositori laici) continuano ostinatamente a negare.

alcune immagini del viaggio in Armenia

foto di Francesco Azzola e Serena Masi


Col tempo si è aggiunto anche l’interesse per le travagliate vicende seguite alla scomparsa improvvisa dell’Unione Sovietica, in particolare il conflitto armato con l’Azerbaigian dei primi anni ‘90 per il controllo del Nagorno Karabakh, conclusosi nel ‘94 con una tregua, che regge da oltre 19 anni ma che e stata accompagnata da una insidiosa guerra economica, destinata, alla lunga, a mettere a dura prova un’economia debole come quella armena, su cui pesa non poco la chiusura delle frontiere con Azerbaigian e Turchia, conseguenza di quel conflitto ancora non risolto.
E tuttavia questi miei interessi, al pari di tanti altri, sembravano destinati a rimanere lettera morta sino a quando non ho incontrato, il 21 giugno scorso, sull’aereo tra Varsavia e Bergamo, Diana, una bella ragazza di Yerevan che lavora, ormai da anni, nella capitale polacca.
Parlando con lei, è spuntata , nella mia testa, l’idea di un viaggio da quelle parti ad agosto, più o meno in concomitanza con le sue vacanze estive a casa dei genitori.    
Una settimana dopo avevo già in tasca la prenotazione dell’albergo e i biglietti aerei.
Fino ad ieri, però, non mi sono preoccupato più di tanto di questo viaggio che si discosta notevolmente dai miei consueti itinerari da un capo all’altro dell’Europa, da Lisbona ad Helsinki, passando per Varsavia o Copenaghen, realtà certo assai diverse ma pur sempre appartenenti alla “casa comune europea”.
Stavolta si tratta invece di addentrarsi nel cuore del Caucaso Meridionale, divenuto, dopo il ‘91, una delle aree più instabili, se non del Pianeta, almeno dell’ex Impero Sovietico.

Mentre, all’Aeroporto Vaclav Havel di Praga, percorro l’area transiti, diretto al volo della Czech Air per Yerevan, mi assale d’improvviso il timore per ciò che mi aspetta in Armenia, dove comunque me la dovrò cavare da solo, visto che Diana -presa dalle sue vecchie amicizie e dagli impegni familiari- potrà dedicarmi ben poco tempo.
Per fortuna i miei timori svaniscono non appena a bordo.
Sul piccolo aereo ci saranno una quarantina di persone, giovani per la maggior parte, tutti armeni che rientrano a casa dalle città in cui hanno trovato lavoro, in Germania, in Polonia e nella stessa Cechia.
L’atmosfera, molto cordiale e rilassata, mi ricorda quella che si poteva respirare, in questa stagione o anche prima di Natale, sui treni diretti a Napoli e Palermo, trenta e più anni fa.
Ascolto in silenzio il suono gioioso e musicale di una lingua a me completamente ignota, che non sembra avere alcuna parentela con nessuna di quelle che mi è capitato di sentire, in tanti anni.
Cullato dal suono melodioso di questa lingua antica, mi lascio dolcemente trasportare tra le braccia di Morfeo.
Quando riapro gli occhi, il monitor di fronte a me segna la rotta sul Mar Nero in direzione di Batumi, il grande porto della Georgia Meridionale.
“Manca molto?”, mi viene spontaneo chiedere.
“I don’t speak your language” risponde sorridendo la ragazza seduta accanto a me.
Ci mettiamo a parlare in Inglese.
Maria lavora da un paio di anni vicino Cracovia e sta tornando a trovare la famiglia, i genitori e la sorella minore.
“Abitano ad Yerevan?”.
“No, a Gyumry, nel Nord”.
E così il discorso cade su quella che in epoca sovietica, col nome di Leninakan, era una delle più importanti città industriali non solo dell’Armenia ma dell’intera Transcaucasia, tanto che (sottolinea con orgoglio Maria) era arrivata a contare 250.000 abitanti. Poi, in una fredda giornata di dicembre del 1988, era stata messa letteralmente sottosopra da un terribile terremoto, che aveva fatto 25000 vittime e centinaia di migliaia di sfollati.
“Ma i numeri – puntualizza lei – non possono rendere l’idea dell’enormità della tragedia. Io ero una bambina di appena nove anni ma non potrò mai dimenticare le scene di terrore che ho vissuto in quei momenti, la gente che si riversava urlando nelle strade mentre i vecchi palazzi del Centro storico, dove abitavo, sembravano sciogliersi come neve al sole”.

“Uno o due giorni dopo -non ricordo con esattezza- è venuto anche il nostro presidente di allora, Gorbaciov. Mi è passato accanto,circondato da un codazzo di gerarchi e guardie del corpo. Per un attimo ho incrociato il suo sguardo, in cui pareva riflettersi, come in uno specchio, tutto lo sgomento di quei giorni terribili”.
“E della ricostruzione cosa puoi dirmi?” le chiedo, anche per allontanare il suo pensiero dall’incubo del terremoto, che le provoca ancora tanta sofferenza.
“Purtroppo -mi risponde- Gyumri non si è più risollevata, anche perché, un paio di anni dopo, è crollata l’Unione Sovietica e con essa il nostro sistema industriale che, in Armenia, aveva i suoi punti di forza proprio a Gyumri e nella vicina Vanazdor, uno dei gioielli dell’industria chimica sovietica”.
“Fra pochi mesi ricorrono esattamente 25 anni da quel terribile 7 dicembre del 1988 ma la ricostruzione, nonostante le promesse del governo, è ancora lontana dall’essere ultimata e soprattutto i giovani,da noi, sono costretti a cercare lavoro altrove, a Yerevan, quando sono fortunati, oppure in Russia e in Europa, come ho fatto io”.
“Comunque –conclude- se vuoi saperne di più, puoi parlare con Ashot Mirzoyan, un architetto di Gyumri che da anni presiede il Centro ricerche della città, un’organizzazione non governativa che si è interessata molto dei problemi sociali ed occupazionali della zona. La sede è vicinissima alla piazza centrale e, se vai a Gyumri, non avrai difficoltà a trovarla”.
Intanto il comandante annuncia che è iniziato l’atterraggio.
Appena scesi a terra, Maria si affretta verso l’uscita, dove l’attende un suo cugino per condurla in macchina a casa.
Superato il controllo passaporti -piuttosto minuzioso, per la verità- mi soffermo a lungo nella sala partenze, già gremita da una folla di viaggiatori assonnati (del resto sono appena le quattro del mattino).
All’uscita, una lunga schiera di tassisti, raccolti in piccoli capannelli, è in paziente attesa dei clienti.
Sembra di essere in una città mediorientale; e in effetti gli atteggiamenti e gli stessi lineamenti del volto testimoniano l’appartenenza di questo popolo al Medio Oriente o, come si usa dire oggi, più correttamente, al Vicino Oriente.
Mi diverto ad intavolare una serrata contrattazione con il tassista di turno. Per portarmi in albergo, chiede 30 euro, poi ridotti a 20.
Gliene offro dieci, prendere o lasciare; alla fine, rassegnato di fronte alla mia cocciutaggine, accetta.
Un quarto d’ora di corsa veloce sulla strada per Yerevan -ancora deserta- e alle cinque del mattino sono in albergo, dove posso finalmente concedermi qualche ora di sonno.

Mi sveglio quando il sole, ormai alto, penetra prepotente nella stanzetta.
Manca una decina di minuti alle undici; una rapida doccia e alle undici in punto sono fuori dall’albergo dove un tassista sta ascoltando alla radio una cantilena che ricorda vagamente quelle arabe.
Mentre il tassista (un uomo sulla cinquantina, che parla solo armeno e russo) si esibisce in una vera e propria gimkana in mezzo al traffico convulso della capitale, mi guardo attorno.
Il panorama è quello tipico di una città sovietica medio-grande, anche se non mancano edifici modernissimi, parecchi dei quali tuttora in costruzione.
Man mano che ci si avvicina al centro, la città rivela, però, la sua vera anima; i caffè all’aperto, affollati sin da quest’ora del mattino da gente di ogni età, conferiscono ai boulevards, costruiti in epoca sovietica, i colori e i profumi di una tipica città mediorientale.
Il tassista mi lascia in un grande mercato all’aperto, il “Vernissage”, dove si respira in pieno quest’atmosfera: sulle bancarelle si trovano esposti i prodotti più svariati dell’artigianato locale, ma ci sono anche molti dipinti, di ogni dimensione, che ritraggono paesaggi, nature morte o anche scene di vita quotidiana, tutti ugualmente caratterizzati da colori molto accesi.
Mi aggiro senza fretta tra le bancarelle, gustandomi scenette di “mercanteggiamento” tra venditori e potenziali acquirenti, che mi riportano indietro di ben ventiquattro anni, quando, nell’agosto ‘89, avevo visitato il Gran Bazar di Istanbul.
Mentre sto per lasciare la piazza, l’occhio mi cade su una bancarella, piena zeppa di vecchi libri, che, al contrario delle altre, appare desolatamente vuota. Nessuno, infatti, presta attenzione ai lamentosi richiami del venditore, un vecchio dai radi capelli ormai completamente imbiancati, due occhi spenti e lo sguardo rassegnato di chi ha smarrito anche la speranza.
Mi fermo a consultare quei vecchi libri e un lampo improvviso sembra attraversare il suo sguardo opaco.
“Have you guide-books in English or French?”, domando.
Il vecchio si affanna a cercare -in mezzo a un mucchio di libri malandati in caratteri cirillici o nei caratteri, ancora più ostici per me, dell’alfabeto armeno- qualcosa che possa corrispondere alla mia richiesta.
Finalmente mi porge, con un sorriso di trionfo, un libretto giallo intitolato “Tourist attractions in Armenia”.
Lo sfoglio; si tratta di una vecchia edizione del 1989 e infatti la toponomastica è rimasta ferma all’epoca sovietica.
La centralissima Piazza della Repubblica è ancora Piazza Lenin e nelle prime pagine compare la famosa statua del leader bolscevico, quella stessa che -stando all’articolo di Gian Antonio Stella del 26 giugno scorso- giace ora, decapitata, nel parcheggio interno del Museo di Storia. Decido di acquistarlo e l’uomo, incoraggiato dalla mia disponibilità, mi porge un altro libro, stavolta stampato nel 1987, anche questo, come il precedente, a Mosca.
Contiene le foto dei quadri di un certo Sarian, un pittore armeno, vissuto in epoca sovietica, di cui non ho mai sentito parlare.
Già che ci sono, decido comunque di comprare pure questo libro, sebbene il mio interesse per la pittura, a maggior ragione per quella sovietica, sia sempre stato piuttosto scarso.
Il vecchio mi chiede diecimila dram, poco meno di venti euro, una cifra enorme se si considera che il salario mensile minimo, in questo Paese, si aggira sugli ottanta euro e quello medio non supera i centocinquanta.
Tuttavia, questa volta, non me la sento di stare a mercanteggiare e gli metto in manco una banconota da diecimila dram.
L’uomo mi guarda con aria incredula mentre mi allontano a passo veloce in direzione della piazza centrale.
A prima vista, Piazza della Repubblica -o Piazza Lenin, come leggo nel libro che ho appena acquistato- sembra rispecchiare in pieno la tradizione sovietica, che prevedeva -in ciascuna capitale delle quattordici repubbliche che con la Russia formavano l’URSS- una grande piazza, destinata ad essere, sul modello della Piazza Rossa di Mosca, il centro del potere e lo scenario ideale per celebrare i riti del regime.
Guardando la piazza, mi sforzo di immaginare la tradizionale parata del primo maggio, con i lavoratori ed i membri delle varie organizzazioni di massa (Komsomol in testa) che sfilano ordinatamente di fronte alla tribuna delle Autorità, posta accanto alla statua di Lenin.
Ad uno sguardo più attento ai singoli monumenti, mi accorgo, però, che non mancano gli aspetti dissonanti rispetto ai rigidi dettami dell’architettura del regime. Le arcate ed i colonnati del Palazzo del Governo, ad esempio, conferiscono all’edificio un’eleganza inconsueta, se rapportata alla pesantezza dell’architettura sovietica degli anni 20/30.
A colpirmi è soprattutto il lato settentrionale della piazza, esattamente dalla parte opposta a quella in cui si trovava la statua di Lenin.
Mi fermo qualche minuto ad ammirare la grande fontana,con i suoi giochi d’acqua e di colori, accompagnati dalla tradizionale musica armena (di qui il soprannome di “singing fountain”). Anche il Palazzo subito alle spalle della fontana -sede del Museo di Storia- sembra ispirarsi ad una sobria eleganza (sottolineata dai colori della pietra, tendenti al chiaro) piuttosto insolita nell’architettura di quell’epoca.

Per cogliere la portata dei cambiamenti intervenuti dopo il crollo del potere sovietico, alla fine del ‘91, riprendo in mano la guida del vecchio (in fondo quei venti euro, mi suggerisce la mia anima “genovese”, non stati buttati via).
Mi soffermo in particolare sulla foto che contiene una panoramica dell’intera piazza.
 Nella sostanza -a parte la statua di Lenin, della cui misera sorte ho già parlato, citando il recente articolo di Gian Antonio Stella- non si notano cambiamenti radicali sia nel “look” sia soprattutto nella destinazione degli edifici.
Il Palazzo del Governo ospita ancora gli uffici governativi e l’Hotel Armenia (ora Hotel Marriott, essendo stato acquistato dall’omonima catena alberghiera internazionale) è sempre al suo posto, in paziente attesa della clientela, divenuta adesso assai più eterogenea ed esigente.
Anche il Palazzo del Museo mantiene la propria originaria destinazione.
Certo, il Museo della rivoluzione non esiste più, in compenso l’attiguo Museo Nazionale di Storia si è notevolmente ampliato ed arricchito di nuovi reperti. Conclusa questa prima “ricognizione” sulla piazza -che dagli anni ‘20 ad oggi è sempre stata il centro del potere politico anche se il Parlamento e il Palazzo presidenziale si trovano in altra parte della città- mi decido finalmente ad iniziare la mia visita al Museo di Storia.
Seguendo le didascalie e soprattutto le indicazioni delle giovani custodi, che per fortuna parlano tutte Inglese, mi avventuro in un lungo viaggio nella storia millenaria di questa terra, cominciando dai reperti dell’età della pietra, che testimoniano la presenza di insediamenti umani nell’area da almeno diecimila anni, per soffermarmi poi sul primo grande regno armeno, quello di Urartu o di Van, che, nei quasi trecento anni della sua esistenza (dalla metà del 9° secolo sino al secondo decennio del 6° secolo avanti Cristo) ha lasciato, come si evince chiaramente dalle testimonianze raccolte in questo luogo, una grossa eredità culturale.
Una rapida occhiata alla mappa, in cui sono disegnati i confini del regno di Urartu, che inglobava anche una grossa fetta dell’Anatolia Orientale sino ai confini della Mesopotamia, mi aiuta a comprendere meglio i rapporti, fatti di aspri conflitti ma anche di intensi scambi culturali e commerciali, dell’antica Armenia con i popoli vicini, Persiani ed Assiri,a cui si aggiungeranno, poi, i Greci di Alessandro Magno e, qualche secolo più tardi, i Romani.
Intanto il mio viaggio è arrivato ad un autentico snodo della Storia dell’antica Armenia, ovvero il 1° Secolo avanti Cristo, periodo in cui il Paese ha conosciuto prima, sotto il regno di Tigran II il grande, l’apogeo della propria potenza (tanto da essere definito il “regno dei tre mari” in quanto si estendeva dal mar Nero al Caspio e al Mediterraneo) e subito dopo, a seguito di ripetuti conflitti con Roma, un inarrestabile declino, sino a diventare uno dei tanti regni vassalli dell’Impero di Augusto.
Con la conversione del re Tiridate al cristianesimo -che si fa comunemente risalire al 301 dopo Cristo- ha inizio un processo di cristianizzazione, che si rivelerà particolarmente incisivo, tanto da creare quel nesso inscindibile tra identità nazionale ed appartenenza alla religione cristiana , a cui va attribuita la tenacia con cui gli armeni (soli tra le diverse popolazioni cristiane dell’Asia Minore soggiogate dall’Impero Ottomano) hanno difeso la propria fede. Non è facile seguire, attraverso i tanti documenti qua raccolti, il tortuoso percorso dell’Armenia cristiana, schiacciata tra potenti e bellicosi vicini e a lungo divisa tra i due grandi imperi mussulmani, Persiano ed Ottomano.
A suscitare il mio interesse sono soprattutto i documenti che testimoniano il ruolo insostituibile svolto per secoli dai Monasteri per difendere e tramandare la cultura armena e quelli, più recenti, che attestano, a partire dal XIX secolo,il risveglio di un sentimento nazionale nei territori ottomani (l’Armenia occidentale, la Cilicia o piccola Armenia, sulla costa Mediterranea, e Istanbul, che ospitava all’epoca una numerosa ed influente comunità armena) ma anche nell’Armenia Orientale, corrispondente grosso modo all’Armenia attuale, passata, nei primi decenni dell’Ottocento, dalla Persia alla Russia Zarista.
Mentre il mio viaggio nella storia millenaria di questo popolo è ormai giunto alla fase conclusiva e più drammatica (il genocidio del 1915/16 e il conflitto con i turchi al termine della I Guerra Mondiale) incrocio una simpatica coppia di turisti italiani. Lui, Francesco, è un giovane di Treviglio mentre la sua ragazza, Serena, viene da Bologna.
Stanno effettuando un “tour” di due settimane in Georgia e in Armenia.
“Domattina -mi dice Francesco- ci trasferiamo per un paio di giorni sul lago Sevan e poi torneremo a Tiblisi, dove, verso fine settimana, abbiamo il volo di rientro a casa”.
Usciti dal Museo, andiamo a mangiare un boccone insieme.
Non ho molta fame e mi limito ad un piatto di pomodori e cetrioli.
“Anche mia madre -dice la ragazza, sorridendo- va pazza per i cetrioli, le ricordano il Suo Paese”.
“Perchè, di dove è?” chiedo, curioso,
“È’ polacca, di Varsavia, ma vive a Bologna, con mio padre, da tanti anni”.
Al che, mi viene spontaneo rievocare i miei trascorsi polacchi e, già che si sono, regalo ai due giovani una copia del libro che ho scritto sulla Polonia dell’immediato dopoguerra, sulla cui copertina compare il faccione di Stalin, nato non lontano da qua, nella cittadina georgiana di Gory.
Si crea così un’atmosfera rilassata e di reciproca simpatia, per cui ci intratteniamo a lungo a parlare del più e del meno. A un certo punto, però, l’occhio mi cade sull’orologio; sono le quattro e mezzo e alle cinque mi aspetta Diana.
Saluto i due giovani e mi precipito in taxi in albergo.
Giusto il tempo di una doccia veloce, dopo di che scendo nel salottino accanto alla reception.
Alle cinque in punto la mia amica varca, sorridente, la porta girevole.
Indossa lo stesso abitino estivo, sul rosa, che aveva, quando l’ho notata la prima volta, all’Aeroporto di Varsavia, ma l’espressione del volto appare, adesso, particolarmente rilassata. Evidentemente, penso, questo ritorno a casa deve averle fatto bene.
Infatti, mentre in taxi ci dirigiamo verso il centro, Diana mi parla con toni entusiastici dei suoi primi giorni a casa, dopo tre anni di assenza, assieme ai genitori e alla sorella che è tornata da Mosca, con i figlioletti, di appena pochi mesi.
“Due gemellini terribili -sorride- che non ci fanno chiudere occhio tutta la notte; quando uno dei due si addormenta, ci pensa l’altro a tenerci svegli”.
Si intuisce chiaramente che per lei, abituata da oltre dieci anni a cavarsela da sola a migliaia di chilometri dal proprio Paese, la famiglia rimane comunque un punto di riferimento insostituibile.
Ma è soprattutto con la madre che Diana ha mantenuto un rapporto molto stretto; è a lei che si rivolge nei momenti di difficoltà ed è sempre la mamma che, almeno una volta all’anno, si trasferisce, per un paio di settimane, dalla figlia a Varsavia.
“Sarai mica un po’ “maminsinek” anche Tu?”, le chiedo, in tono scherzoso ma non troppo, riferendomi ad un’inchiesta giornalistica, pubblicata anni fa da una rivista di Varsavia, sulle donne polacche che vivono nel nostro Paese insieme a mariti italiani, definiti, dalle loro stesse mogli, “inguaribili mammoni” (“maminsinek”, in polacco).
“Vivo da sola tutto l’anno e da sola devo affrontare le difficoltà della vita di tutti i giorni, per di più in una terra straniera, per cui, le poche settimane che riesco a stare con mia madre, mi diverto a fare anch’io la maminsinek”, ribatte lei.
Intanto il tassista ci lascia proprio di fronte al Teatro dell’Opera.
Diana mi precede e provvede a pagare il taxi: appena cinquecento dram, esattamente la metà di quanto ho pagato io per lo stesso percorso, un po’ come succedeva a Roma o a Napoli, anni fa, con i turisti di oltreoceano (ma qua la parte “dell’americano” tocca a me).
“Ti voglio mostrare alcuni monumenti dell’epoca sovietica che a me piacciono molto; così capirai che non tutta l’architettura di quel periodo è da buttare” mi dice, quasi con aria di sfida.
Dopo neanche cinque minuti di camminata, a passo svelto, mi trovo davanti a un grande giardino, ordinatissimo e ben curato, cui fa da sfondo una maestosa scalinata, coronata, in cima, da una stele di marmo con sopra un globo dorato.
“Questo grande complesso -spiega Diana, con tono professionale- si chiama “la Cascade” ed è stato concepito a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 per celebrare i primi cinquant’anni del potere sovietico in Armenia; purtroppo però è rimasto per decenni incompiuto e i lavori sono stati completati solo dopo il ‘91, dopo l’indipendenza, grazie al generoso contributo di un ricco armeno della diaspora, che ha anche fatto abbellire il giardino con molte moderne statue”.
Camminando nei vialetti, mi soffermo ad ammirare le statue, opera di scultori contemporanei, spesso molto famosi, compreso Fernando Botero, l’artista colombiano che vive tra Parigi e la mia Pietrasanta, a cui ha infatti donato molte sue opere, che oggi rendono ancora più suggestivo il magnifico borgo toscano, incorniciato dalle Alpi Apuane.
Una sola volta, diversi anni fa, mi è capitato di incontrare Botero, insieme ad alcuni suoi connazionali e alla moglie Sofia, alla trattoria del “Gatto Nero”, a due passi dalla Stazione di Pietrasanta. Curiosamente, in questo parco di Yerevan, mi imbatto in una sua scultura, che ritrae, neanche a farlo apposta, un enorme gatto nero.
Giunti ai piedi della scalinata, Diana suggerisce di prendere la scala mobile.
“Sono centinaia di gradini”avverte.
Al che, la seguo sulla scala mobile, che, in pochi minuti, ci porta comodamente in cima alla scalinata, da cui si può godere una splendida vista di Yerevan e dintorni.
“Avevi ragione Tu -le dico- non tutto è da buttare dell’architettura sovietica, anche se, in questo caso, il disegno originario è stato perfezionato e notevolmente migliorato grazie agli interventi successivi, che non hanno nulla a che vedere con i canoni estetici del regime”.
“Visto che insisti col tuo viscerale pregiudizio antisovietico, Ti porto a vedere un altro simbolo di quel periodo”, risponde lei, sorridendo.
La seguo, incuriosito, mentre si addentra in un parco, uno dei tanti di questa città, che offre, ai turisti ma soprattutto ai propri cittadini, numerosi e ben curati spazi di verde.
Improvvisamente, si blocca davanti ad una lapide, in cirillico e in alfabeto armeno.
“Commemora i ragazzi di Yerevan che sono caduti durante la guerra in Afganistan, negli anni ‘80. Ho conosciuto un amico di mio padre che ha vissuto quell’esperienza terribile e ne porta ancora oggi i segni, non solo fisici ma soprattutto psicologici”.
Probabilmente, penso, l’intervento armato in Afganistan, negli anni ‘80, ha avuto, sui cittadini dell’URSS, un impatto abbastanza simile a quello provocato negli Stati Uniti, una quindicina di anni prima, dalla guerra del Vietnam.
Trascorsi un paio di minuti, Diana riprende la sua marcia spedita in direzione della grande statua che domina la capitale : una donna in atteggiamento guerriero che brandisce la spada.
“Ecco la Madre Armenia” si limita a dire, indicando la statua, come se tutti, compresi gli ignari turisti occidentali, dovessero conoscere la storia di questo monumento.
Per fortuna, anche in questo caso, mi viene in aiuto Gian Antonio Stella che, nel suo articolo di fine giugno, si era soffermato pure sul singolare destino di questo monumento, edificato, nella prima metà degli anni ‘50, per ospitare una gigantesca statua di Stalin.
Anche dopo il XX Congresso del PCUS e la clamorosa denuncia dei crimini staliniani ad opera di Kruscev, il dittatore georgiano aveva continuato a volgere il proprio sguardo minaccioso, da questa collina, verso il vicino confine della Turchia, all’epoca solerte sentinella della NATO sul fianco meridionale nonché prezioso alleato degli Americani nel delicato scacchiere mediorientale.
Soltanto nel 1967 (con dieci anni di ritardo rispetto alle repubbliche consorelle a nord del Caucaso) il Soviet di Yerevan si era deciso a mandare in soffitta “Baffone” e a sostituirlo con un nuovo simbolo, capace di conciliare la retorica sovietica con quella ispirata al nazionalismo armeno (ma qui preferiscono chiamarlo patriottismo), che cominciava timidamente a rialzare la testa proprio in quegli anni.
Il che spiega come mai questo simbolo del vecchio regime sia riuscito a passare indenne attraverso gli anni tumultuosi del crollo sovietico e della riconquistata indipendenza.
Diana si dirige, con passo vagamente “militaresco”, verso il piedistallo, in cui è ospitato il Museo Militare che, in questa nuova fase storica, celebra, oltre all’epopea della “grande guerra patriottica” dei popoli sovietici contro le Armate di Hitler, anche le rinate forze armate armene, che hanno già avuto modo di cimentarsi, con buoni risultati, nel breve ma sanguinoso conflitto dei primi anni ‘90 contro l’Azerbaigian, sospeso, poi, nel ‘94, grazie ad un accordo di cessate il fuoco, che potrebbe essere messo in discussione in qualsiasi momento, riaprendo l’ennesimo fronte di guerra alle porte del Vecchio Continente.
Sfortunatamente, a quest’ora, il museo è già chiuso, ma Diana, pervasa da un improvviso fervore patriottico, non si dà per vinta e si dirige verso i vicini giardinetti, dove fanno bella mostra di sé alcuni esemplari dell’armamentario bellico sovietico: un carrarmato -dello stesso tipo di quelli che, all’alba di una mattina d’agosto di quarantacinque anni fa, erano comparsi nelle strade di Praga- e un lanciamissili.
Le chiedo di farsi fare una foto sul carrarmato ma lei preferisce il lanciamissili (è più moderno, evidentemente).
Appena le ho scattato la foto, Diana riprende la propria corsa, alla ricerca dei ricordi dell’infanzia. Qualche decina di metri più in basso, si ferma a contemplare un parco giochi, che, ai miei occhi, ricorda quello in cui Cristoforo trascorreva le serate, a Tonfano, una quindicina di anni fa.
La giostra, le montagne russe... tutto sembra identico.
“È il parco giochi dove venivo quand’ero bambina” sussurra appena, con lo sguardo triste di chi ha dovuto crescere troppo in fretta.
In effetti Diana ha due anni meno di mio figlio Cristoforo, eppure, quando non aveva ancora vent’anni, ha lasciato i propri cari e gli amici, alla ricerca di un futuro migliore.
Provo una grande tenerezza per questa donna/bambina e sarei tentato di abbracciarla -come certe volte mi capita ancora oggi di fare con Cristoforo- ma mi trattengo, nel timore di ingenerare qualche spiacevole fraintendimento.
Per distrarla dal senso di tristezza che sembra esserle piombato addosso, chiedo se per caso conosce un bel ristorantino in centro. Mezz’ora dopo, siamo di nuovo dalle parti di Piazza della Repubblica, nei boulevards affollati dai turisti e dalla gente del posto, tra orchestrine che alternano musica americana e motivi musicali armeni e ballerini, nei tipici costumi del Caucaso.
Diana infila una porticina, da cui si accede ad un ampio locale, zeppo di turisti di ogni età e nazionalità, russi e americani soprattutto, ma anche francesi e giapponesi.
“Ho voglia di assaggiare la cucina tradizionale armena” le dico.
Lei non se lo fa ripetere due volte e mi ordina la zuppa al coriandolo e un arrosto di vitello arricchito da spezie a me del tutto sconosciute, oltre al solito piattino di pomodori e cetrioli.
Il mio stomaco, ancora non avvezzo al gusto forte della cucina caucasica, si mette a fare le bizze. Fosse per lui, dovrei mangiare solo i pomodori con i cetrioli e lasciare tutto il resto nel piatto.
Ma, per non deludere la mia “guida”, ingurgito prima la zuppa e subito dopo “l’arrosto alle spezie caucasiche”, come l’ho ribattezzato io.

Lei, intanto, sembra aver recuperato il buon umore e, terminata la cena, si mette a fumare delle sigarette georgiane, dal gusto molto forte, a suo dire.
Evidentemente, il divieto di fumo nei locali pubblici non è arrivato a queste latitudini e anche i turisti sembrano volersene approfittare, riempiendo la sala di un fumo denso che va a mescolarsi con l’odore acre della cucina locale. Una miscela decisamente insopportabile, almeno per il mio olfatto delicato, con l’effetto di risvegliare lo “spiritello genovese” che sonnecchia dentro di me.
“Vedrai, Paolo -sussurra sarcastica- quanto ti costerà questa cenetta romantica, dal gusto turco-caucasico”.
Rimango un po’ titubante ma alla fine mi dico che è meglio togliersi subito il dente e così chiedo il conto: tredicimila dram, esattamente venticinque euro, una cifra spropositata per gli standard di questo Paese, abbastanza abbordabile, però, per le mie tasche di pensionato medio-alto.
“Che ne dici della nostra cucina?”, mi chiede sorridendo Diana, che non deve essersi accorta dei miei sforzi sovrumani di fronte alla zuppa al coriandolo e all’arrosto speziato.
“Buonissima”, rispondo senza esitazioni, toccandomi il naso, con gesto rivelatore (per fortuna, penso, il romanzo di Collodi non è arrivato sin qui).    
Subito fuori dal ristorante, Diana ferma al volo un taxi, che, per raggiungere il mio albergo, impiega una buona mezz’ora, dato il traffico caotico che si scatena a Yerevan, dopo le nove di sera.
“Domani sono impegnata tutto il giorno con mia sorella e i miei nipotini, comunque chiamami al telefono, così ci mettiamo d’accordo per rivederci giovedì o al massimo venerdì” mi dice, nel salutarmi.
Mentre lei si allontana, a bordo del taxi, guardo l’orologio: le dieci e mezzo di sera.
La mia prima, lunghissima, giornata di questo viaggio ai confini tra il Caucaso e l’Anatolia volge ormai al termine.
Salgo in camera e nel giro di pochi minuti sono di nuovo tra le braccia rassicuranti di “Morfeo”.

(Paolo Vettori)